RICCARDI ANDREA
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Paolo Prodi è stato uno storico europeo con salde radici nel mondo tedesco (si pensi al rapporto fecondo e discepolare con lo storico del Concilio di Trento, Hubert Jedin), ma espressione della storiografia italiana (la scuola di Delio Cantimori). Oggi, con la sua scomparsa, misuriamo l'ampiezza della ricerca, cui ha lavorato fino alla fine. Molto giovane pubblicò studi sul Concilio di Trento e due volumi sul cardinal Gabriele Paleotti (il primo nel 1959 a ventisette anni), figura decisiva specie in rapporto all'arte postridentina.
Nella maturità, ha segnato la ricerca storica con pietre miliari, quali Il Sovrano Pontefice, in cui mostrava come lo Stato papale non fosse, sulle soglie dell'età moderna, solo un relitto medievale, ma un soggetto rilevante tra gli Stati moderni, che ha condotto a un'incorporazione della religione e delle forme sacrali nella politica, oppure lo studio sulle origini del dualismo contemporaneo tra coscienza e diritto. Lo storico spaziava sull'età moderna e contemporanea, consapevole del ruolo del cristianesimo nel formare coscienza e istituzioni in Europa, ma attento a evitare una storia della Chiesa a parte, una storiografia ecclesiastica. Nella sua lezione, s'intrecciano senso della complessità e cultura poliedrica che gli permetteva di cogliere la trasversalità dei processi. È stato, certo, un grande storico italiano, il più grande di quelli di tradizione culturale cattolica negli ultimi tempi. Per lui, gli ultimi anni sono stati tanto fecondi: non per arricchire gli studi di sempre come un pensionato dell'accademia, ma per maturare una visione profonda e di sintesi, scevra però di semplificazioni.
Si pensi al volume Profezia vs utopia del 2013, in cui osserva come la forte voce della profezia si sia spenta con l'avvento della modernità, diventando utopia secolarizzata o rivoluzionaria o, dall'altra parte, visioni "sussurrate" nell'intimità cattolica come quelle mariane.
Negli ultimi anni, ha focalizzato un sistema interpretativo o, meglio, una lettura in profondità del tempo moderno, sempre segnato dalla cifra della complessità, per lui aderente alla realtà e alla storiografia del profondo. Lascia in eredità un metodo sicuro «nel fiume di parole che scorre ogni giorno», scriveva nel 2015 in Homo europaeus. Aggiungeva: «I problemi politici e economici dell'Europa appaiono sempre più inseriti nel quadro antropologico che coinvolge tutto l'uomo». Sarà necessario ritornare sugli ultimi suoi studi: lasciano una grossa eredità a chi crede che il tempo presente non si capisca senza dimensione storica, ma anche sfidano una storia di nicchia che sostituisce a visione e senso pubblico specialismo e organizzazione. È fondamentale ricordare che Prodi ha condotto la sua "battaglia" con la "povertà" dell'artigiano (ricerca e scrittura) e la sapienza della sua cultura. Con audacia e umiltà. Non era solo un uomo di biblioteca. Lo ricordo alla facoltà di Magistero di Roma, sul finire degli anni Settanta, quando condivideva l'ufficio con lo storico Pietro Scoppola: s'intrecciavano tra loro conversazioni fitte tra storia e politica, in un tempo di crisi della Repubblica, ma in cui si pensava che la politica avesse bisogno della storia. Prodi è stato un appassionato del proprio tempo, capace di battaglie, discussioni pubbliche, costruzioni e rotture: nella cultura, in politica e nella Chiesa. Nel suo ultimo scritto, Profezia, utopia, democrazia, dell'agosto 2016, ripercorreva le polemiche postconciliari tra progressisti e conservatori, notando come avessero impregnato negativamente il dibattito, mentre il grande Vaticano II aveva vaga coscienza dell'avvento della globalizzazione. Lo colpiva oggi Francesco («una goccia» nella grande transizione), ma un papa-profeta che «lascia che nell'accampamento si torni a profetizzare». E concludeva: «Sta nascendo qualcosa di nuovo, un nuovo rapporto tra profezia e istituzione», perché «la Chiesa siamo noi e la corruzione non viene dall'esterno».


Questo articolo di Andrea Riccardi è apparso sul quotidiano Avvenire il 18 dicembre 2016
 
21 Agosto 2018

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