Aver distrutto questo patrimonio dell'umanità ha significato uccidere la speranza di convivere in Siria. Solo la sua ricostruzione apre al futuro
Questo articolo di Andrea Riccardiè apparso nella rubrica Religioni e civiltà su Sette del Corriere della Sera il 18 marzo 2016Un'amica, proveniente dal Libano, mi ha regalato un libro fotografico, stampato nel 2004. È recente ma prezioso, perché ha fotografato un mondo che non esiste più. Quello di Aleppo, la più bella città della Siria, luogo reale e simbolico del vivere insieme, ormai distrutto. Ho capito perché spesso i libri conservano quello che gli uomini distruggono. Il libro è Alep, curato dal poeta siriano Adonis e dal fotografo brasiliano Carlos Freire: le immagini di un'Aleppo passata, perché oggi è un inferno tra cumuli di rovine, bombardata e divisa tra ribelli e governativi. Le fotografie di Freire ritraggono l'Aleppo di pochi armi fa, prima della guerra: la città orientale, quella della cittadella, dei suk e caravanserragli, delle scuole coraniche e dell'intrico di vie, dove tutto era, allo stesso tempo, monumento e vita. Ritraggono pure l'Aleppo nuova, cresciuta disordinata nel dopoguerra, senza perdere il suo carattere, in cui tutte le minoranze sono di casa. Il poeta Adonis scrive: «In questi suk che s'intrecciano, si mescolano, anche in un incrocio fecondo, un numero inaudito di popoli, etnie, lingue e culture». Non intendo dare un'immagine mitica di Aleppo. Davvero però la città riusciva a far convivere gente tanto diversa: «La chiesa è un segno, la moschea è una voce. Tra le
due, la vita circola dentro Aleppo come in un giardino...», scrive Adonis. Solo gli ebrei sono stati mandati via. Ne sono rimasti pochissimi e l'ultima famiglia è fuggita nel 2015. Aleppo era rifugio per i resti delle bufere della storia. Qui, nel 1915, approdarono i deportati armeni. Gli armeni locali ne salvarono una parte e gli altri furono portati dai turchi a morire nel deserto. Proprio nell'anno del centenario delle stragi, le due cattedrali armene sono state bombardate. C'erano tanti armeni, ma molti sono andati via con la guerra. Funziona ancora l'Hotel Baron, gestito dagli armeni Mazloumian, dove risiedeva il comando turco nel 1915 e dove sono passati Agatha Christie e Lawrence d'Arabia. Restano alcuni frammenti di un mondo di cultura e arte, colpito a morte.
Di tutto questo si può salvare poco ormai; ma si possono salvare le vite umane. Non so in che stato sia il palazzo Antaki, uno scrigno d'arte, ma il dottor Nabil Antaki è un medico cristiano, rimasto nonostante le bombe. Direttore di uno dei due ospedali in funzione, lavora in condizioni difficili. Ha scritto agli amici in Europa: «Abbiamo paura che, a forza di leggere le atrocità che vengono commesse in Siria, voi perdiate la capacità di indignarvi, rassegnandovi ad accettare l'inaccettabile...».
Non si poteva salvare Aleppo? Si doveva trovare subito il filo della tregua che ha visto ora Russia e Stati Uniti assieme. L'orrore di questa guerra resta una grave responsabilità dei suoi attori, ma anche delle grandi potenze che non l'hanno fermata. Nel giugno 2014 avevo lanciato un appello per salvare Aleppo, creando una zona di tregua attorno alla città. Ci si doveva fermare davanti alla sua bellezza e umanità, non distruggerla. Aver profanato questo patrimonio dell'umanità mostra la barbarie dei combattenti e l'irresponsabilità della comunità internazionale. Gran parte di Aleppo è crollata, come il minareto della grande moschea degli Omayyaddi (risalente al 1090), simbolo della città, abbattuto in una battaglia del 2013 tra governativi e ribelli. Restano ora solo gli aleppini, testimoni della civiltà del vivere insieme, attaccati ai resti della città. Qui hanno vissuto mesi senza elettricità e acqua, scavando pozzi e riaprendo quelli antichi. Distruggere Aleppo ha significato uccidere la speranza di convivere in Siria. Solo la sua ricostruzione può inaugurare un futuro di pace per i siriani e il Medio Oriente.