Le prime prove di solidarietà e confronto si sono viste a Roma tra il 1943 e il 1944, quando le chiese hanno dato rifugio agli ebrei
Andrea Riccardi su Religioni e Civiltà (Sette - Corriere della Sera) del 15 aprile 2016
Roma è stata una città clandestina nei nove mesi dell'occupazione tedesca: dal settembre 1943 al 4 giugno 1944, quando fu liberata dagli alleati. Allora si diceva che metà Roma nascondeva l'altra metà. Elena Carandini, testimone degli eventi, osservava: «Nascondersi, nascondersi, non si sente altro. Ogni casa ha il suo segreto». Oggi, passando davanti ai palazzi e alle chiese, non si sospetta la vita sommersa di allora. Un manifesto fascista rappresentava un uomo dietro le persiane e commentava: «il vile si nasconde mentre l'invasore distrugge la Patria». Impossibile calcolare il numero dei clandestini: forse tra i 200.000 e i 400.000 in una città con poco più di un milione di abitanti. I richiamati alla leva fascista si nascondevano. Lo storico Renzo De Felice parla di quasi 4.500 ebrei ospitati dalla Chiesa. La Carandini racconta che, per strada, si vedevano soprattutto donne, anziani e giovanissimi. Molti uomini erano in guerra, tanti altri nascosti. La vita sommersa si svolgeva anche nelle abitazioni private. Il contributo decisivo veniva dalle tante istituzioni della Chiesa: una rete di rifugi realizzata con spontaneità e, allo stesso tempo, organizzazione, per nascondere e approvvigionare i clandestini.
Si trattava di renitenti alla leva, militari, ebrei, politici antifascisti (tra cui De Gasperi e Nenni, nascosti nell'area extraterritoriale di San Giovanni in Laterano). La Chiesa contava a Roma parecchi edifici extraterritoriali oltre al Vaticano. Ma proprio la presenza dello Stato vaticano permise di dare copertura a quasi tutte le case religiose. Un cartello, che poteva essere esibito o affisso, a firma del comandante tedesco, affermava: «Questo edificio serve a scopi religiosi ed è alle dirette dipendenze dello Stato della Città del Vaticano. Sono interdette qualsiasi perquisizioni e requisizioni». Erano in realtà edifici italiani. Qui, accanto agli altri ricercati, arrivarono gli ebrei dopo la razzia tedesca del 16 ottobre. Si crearono inedite convivenze tra ebrei, sacerdoti e suore. Fu il primo "dialogo", concreto e in condizioni drammatiche, tra ebrei e cristiani. Una vera svolta in una storia non facile. Ci furono alcuni tentativi di conversione degli ebrei da parte dei religiosi. Ma in genere i rapporti furono amichevoli e rispettosi. Le suore di Chambéry, che accoglievano parecchie ebree, ne favorivano la partecipazione ai riti religiosi per evitare che fossero riconosciute. Tuttavia queste celebravano tra loro Pasqua e Purim, mentre si evitava di dar loro cibi proibiti. Questo avveniva in molte case. Qualche volta, per impedire l'identificazione, gli ebrei portavano l'abito religioso e imparavano le preghiere cattoliche. Fu utile, quando ci furono irruzioni da parte dei tedeschi, anche se questi in genere non volevano avere problemi con il Vaticano. Probabilmente sapevano di più sulla vita clandestina di quanto allora si credesse.
Nel dicembre 1943, la banda Koch (fascista) penetrò nel Seminario lombardo: c'erano ebrei, ufficiali, antifascisti (tra cui il leader comunista Giovanni Roveda), la gran parte vestiti da preti. I fascisti facevano recitare le preghiere, per scovare gli ebrei. Si legge nella cronaca del seminario: «Venne arrestato fin dal principio un ebreo: Amedeo Spizzichino. Glielo lessero in faccia: tu sei ebreo. Invano la moglie, con forza incredibile si mantenne calma e cercò di provare che erano sfollati di Civitavecchia...». Non tutte le vicende furono così drammatiche. Il sistema clandestino in genere resse bene. Bruno Di Porto, che lasciò il suo nascondiglio a San Luigi dei Francesi il 5 giugno 1944, scrive: «Ne porto il ricordo riconoscente». Quel giorno si unì a un «gaudioso torrente umano» che sciamava nelle strade di Roma, finalmente liberata.